lunedì 17 maggio 2010

La storia di O tutto o l'amore (prima puntata)


O tutto o l’amore nasce da una specie di reazione a catena seguita all’uscita di Canzoni per uomini di latta. Per tutto l’anno scorso, ho suonato dal vivo, in versione “solitary man”, acustico e libero, salvo qualche sporadico ospite qui e là: avevo programmato una dozzina di presentazioni di Canzoni per uomini di latta che via via sono diventate tre volte tante e, durante l’estate, hanno preso la forma di un tour vero e proprio, per quanto un po’ bizzarro. Qualcuno della squadra (ero solo a suonare, ma sulla strada eravamo sempre cinque o sei) ad un certo punto ha avuto l’idea di chiamarlo “Distrattour” e lì credo ci sia stato uno dei primi punti fermi, come un segnalibro in una svolta importante di un romanzo, che hanno portato a O tutto o l’amore perché “Distratto”, l’ultima canzone composta e incisa per Canzoni per uomini di latta, nonché l’overture del disco, mi ha aperto una nuova prospettiva. Fino a ieri, ovvero fino alla lunga elaborazione di Canzoni per uomini di latta, l’aspetto del testo, delle parole, veniva sempre dopo la musica. Non era secondario, ma successivo, forse perché la musica è più immediata, istintiva e forse anche più divertente del foglio di carta in bianco e nero. Con Canzoni per uomini di latta ho cominciato a leggere di più tra le parole e i silenzi, le storie, i soggetti, i temi, le atmosfere e i personaggi, imprimendo alle mie canzoni un taglio narrativo. Ora, il punto non è se viene prima la musica o il testo, che è come chiedersi se viene prima la gallina dell’uovo, ma per me è diventato naturale, spontaneo mettere al centro di tutto il lavoro, dalla composizione all’incisione, dal concerto alla semplice comunicazione, la storia delle canzoni. Distratto, e il suo personaggio principale, Bartolomeo, il lavavetri e la sua famiglia che ho raccontato dozzine di volte durante le presentazioni è l’esempio più evidente, ma potrei dire anche i bambini che eravamo in Miraggio o la storia in sé di Raccolgo la vita, una canzone che è rimasta nel cassetto per vent’anni finché non è venuto il suo tempo e in un minuto ha preso forma. Questa attenzione da Canzoni per uomini di latta si è riversata, direi in modo logico, in tutto il “Distrattour”: ho girato in lungo e in largo l’Italia e ogni incontro, ogni concerto, vecchi e nuovi amici, musicisti e non, artisti e giornalisti, ragazze e ragazzi, avevano qualcosa da dire, una canzone da sentire o da riscoprire. Mille legami, dal più antico all’ultima conoscenza, si sono intrecciati e nel feedback dei concerti del “Distrattour” sono cresciute altre canzoni. Via via si sono aggiunte le mie interpretazioni di De André, De Gregori, Boris Vian, Ivan Della Mea, Piero Ciampi, Ivan Graziani, Enzo Jannacci, per non dire di tutti i canti popolari, del lavoro, della Resistenza o del fuoco sulla spiaggia che in un modo o nell’altro saltavano fuori. Insieme a queste, senza soluzione di continuità, si sono infilate alcune canzoni dai miei primi dischi, qualche riscoperta dei tempi di Settore Out e tutto questo marasma, molto caotico, ma forse anche molto creativo, mi è stato di stimolo, in qualche modo che ancora devo comprendere a fondo a scrivere parecchie canzoni nuove. Mi sono ritrovato nell’autunno dell’anno scorso con qualche migliaio di chilometri alle spalle (insieme a un paio di cisterne di birra scolate, perché il “Distrattour” era ed è una roba seria) con una manciata di canzoni nuove, un paio di rivisitazioni di miei vecchi brani e qualche cover a cui alla fine, dopo averle suonate ovunque, mi sentivo legato in modo particolare. E continuavo a scrivere, e a leggere, ma quello che mi ha sorpreso è stato che, nel giro di poche settimane, un paio di prove con Fidel Fogaroli alle tastiere e Stefano Bertoli alla batteria, pochi giorni in studio di registrazione, qualche intervallo per piccole ed estemporanee repliche del “Distrattour”, le canzoni si sono allineate da sole, come se stessero dentro una casa a forma di storia. In modo naturale, senza grandi traumi, qualcuna è rimasta nelle scalette del “Distrattour”, altre non si sono conciliate con il tenore che la storia stava prendendo, altre ancora sono finite nei ricordi o in sala d’attesa perché come musicista posso decidere una tonalità, l’accordatura, un ritmo o un colore ma poi il tempo, il momento se lo scelgono le canzoni. E allora, alla fine di un inverno freddo e bestiale, ho stappato una bottiglia di chianti riserva Ducale e sono rimasto a guardare cosa stava succedendo. (1, segue)

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